Barriers & gateway

La comunicazione: barriere e vie di accesso

 

 Commento all’articolo di Carl R. Rogers e F.J. Roethlisberger “Barriers and gatway to communication” di

John J. Gabarro, professore di “Human Resource Management” alla Harvard Business School

(Taduzione di Helen Creswell)

Leggendo "Barriers and Gateways" oggi, è difficile comprendere lo scalpore che l’articolo suscitò nel 1952, quando fu pubblicato per la prima volta. Ma allora, le idee di Rogers e Roethlisberger sull’ importanza dell’ascolto furono davvero radicali. Non solo gli autori si sono avventurati su terreni inesplorati (l’idea che i sentimenti delle persone contano, anatema all’etica di business) ma hanno anche contestato la “santità” delle gerarchie, suggerendo che i manager prendono in seria considerazione i pensieri e i sentimenti dei loro dipendenti.

Oggi, però, queste intuizioni sono diventate così fondamentali da essere ovvie, e ciò dimostra quale sia stato l’impatto determinato dalle loro idee e quanto la comunicazione della classe manageriale sia progredita. Ma questo progresso ha davvero avuto successo? Senz’altro i manager di oggi hanno una migliore comprensione di quanto importante sia l’ascolto nell’ ambito di una comunicazione efficace. Tuttavia, la maggior parte ha ancora difficoltà a metterlo in pratica.

Un motivo potrebbe essere proprio la loro stessa elaborazione: lezioni semplici vengono dimenticate facilmente. Un altro motivo però, potrebbe essere che, dopo tutto, questa lezione non sia così semplice, che ciò che gli autori ci hanno detto 40 anni fa sia più difficile di quanto sembri e sia in realtà solo una faccia della medaglia. Il vantaggio di rivisitare i due autori, allora, è sia quello di tener presente intuizioni ancora rilevanti, anzi estremamente significative, sia di trovare, secondo un punto di vista a distanza di 40 anni, ciò che potrebbero aver trascurato.

Sono tre le intuizioni che più fortemente riguardano il business di oggi e che trascendono i confini istituzionali e sociali: sono le barriere e le vie di accesso alla comunicazione che, come mostrano gli autori, possono occorrere tra due nazioni nonché tra due individui. Queste intuizioni sono attuali perché costituiscono valori fondamentali dei rapporti interpersonali.

La barriera maggiore ad una efficace comunicazione è la tendenza ad una valutazione di ciò che un’altra persona sta dicendo e quindi di fraintendere oppure di non “ascoltare” veramente.

Lo scenario di Bill e Smith, che fornisce una descrizione realistica di questo processo, è ancora attuale perché tali fallimenti di comunicazione succedono di routine. Inoltre, nel mondo degli affari di oggi, più complesso rispetto al passato, è presumibile che tali episodi si possano verificare più frequentemente. Una maggiore diversificazione della forza lavoro, per esempio, può complicare la comunicazione, dato che una condivisione di presupposti ed esperienze diventerà sempre più difficile da stabilire.

A dire il vero, se nel 1952 Roethlisberger riteneva “straordinaria” la comunicazione tra due persone, date le loro “differenze in cultura, esperienze e motivazioni”, attualmente avrebbe pensato ad un miracolo. Controllare la naturale tendenza al giudizio porta ad una maggiore comprensione della persona con cui state comunicando. Naturalmente, una maggiore diversità rende un ascolto disciplinato anche più importante, dal momento che le possibilità di fraintesi sono potenzialmente maggiori. Quindi questa via di accesso alla comunicazione è quanto mai indispensabile.

Mettendo da parte supposizioni e giudizi, un manager può arrivare al cuore di un dipendente, un indicatore migliore di quanto il dipendente sta esprimendo solo verbalmente. 

Da ciò ne consegue che una maggiore comprensione del punto di vista dell’altra persona favorirà una comunicazione migliore.

Una comunicazione efficace può essere suddivisa in parti uguali: l’ascolto e l’espressione, la chiarezza dell’uno dipende dalla chiarezza dell’altro. Un manager con una visione più chiara della persona con cui sta parlando riesce ad esprimersi in modo più appropriato. Queste intuizioni hanno dato il via ad una serie di metodiche progressive a livello aziendale, quali, ad esempio, il potenziamento delle motivazioni dei dipendenti. 

Quando un manager mostra volontà nell’ascoltare un dipendente, è più probabile che si instauri un rapporto di fiducia e quindi di onestà. Inoltre, incoraggiando il dipendente a parlare liberamente, senza il timore di una rappresaglia, si aumenta l’autostima del lavoratore, il quale può constatare la valorizzazione del suo contributo, e il manager può sfruttare una fonte indispensabile di informazioni, l’esperienza sul campo. Si consideri poi la tecnica di “ascolto attivo”, sviluppata negli anni '70 e ampiamente utilizzata ancora in diversi programmi rivolti al training sia della classe manageriale sia di quella della forza vendite. Ad esempio, un addetto alle vendite che applica il metodo di ascolto attivo, non giudica in prima battuta la richiesta di un potenziale cliente, ma la riformula per essere sicuro di aver capito esattamente la tipologia della richiesta.

I vantaggi sono duplici: innanzitutto, questo metodo minimizza la possibilità che l’addetto alle vendite stia cercando di far prevalere il proprio personale giudizio rispetto ai reali bisogni del cliente ed, inoltre, il cliente si sente ascoltato e compreso. Alla fine, però, forse i due autori avevano riposto troppa fiducia nell’ascolto non valutativo.

I ricercatori che lavorano in questo campo, e anche i manager che tentano di applicare queste lezioni, si rendono conto adesso di quanto gli autori fossero stati troppo ottimisti. Primo, una premessa fondamentale ma inarticolata è che la comprensione debba essere uguale alla risoluzione, ma questo non è il caso: mentre la comprensione può migliorare il processo di negoziazione – come dimostrato nelle varie ricerche di Richard Walton sui rapporti di lavoro e in quelle di Roger Fisher sulle negoziazioni internazionali – tuttavia non può risolvere il conflitto da sola. 

Secondo, il processo per ingenerare fiducia non è così unilaterale come Rogers e Roethlisberger hanno suggerito. Probabilmente Jones non riuscirebbe ad ottenere la fiducia di Bill mostrando semplicemente un impegno all’ascolto non valutativo. Bill valuterà molti altri aspetti del comportamento e del carattere di Jones nel decidere se parlare liberamente con lei: le sue motivazioni, la sua discrezione, la coerenza del suo comportamento ed anche la sua competenza manageriale.

Solo quando questa valutazione risulti positiva, Bill risponderà sinceramente alle proposte di Jones. Perciò, di solito, c’è bisogno di un livello minimo di confidenza per suscitare il tipo di fiducia che una onesta comunicazione richiede. Questo è vero in particolare quando c’è uno squilibrio di potere che tende a favorire una maggiore diffidenza iniziale. (Questa dinamica funziona in entrambe le direzioni: un dipendente può essere diffidente nei confronti del manager per timore di una rappresaglia, ma anche un manager potrebbe essere diffidente nei confronti del dipendente per paura che questi dica solo ciò che il manager vuole sentire). 

Infine, i manager oggi si scontrano con più barriere di comunicazione di quanto previste da Rogers e Roethlisberger. Una è costituita dai tempi stretti. Per ascoltare con attenzione ci vuole tempo, e i manager hanno poco tempo a loro disposizione. Specialmente nel mondo aziendale odierno, dove si dà grande enfasi alla velocità (es. corriere espresso, computer più veloce, gare a tempo), i manager già stressati potrebbero dare poca attenzione alla comunicazione individuale con i propri dipendenti.

Un’altra barriera in questo periodo di fusioni aziendali, acquisizioni e “delayering” [i processi di delayering sono quelli che conducono alla riduzione dei livelli gerarchici, soprattutto a livello manageriale, in cui si articola la struttura organizzativa, n.d.t.] è costituita dall’insicurezza, causa di paura.

Quando c’è una minaccia di cassa integrazione, entrambi i Bill e i Jones in questo mondo hanno un buon motivo per rinchiudersi, specialmente quando le persone ritengono che i loro sentimenti più veri potrebbero essere la causa del loro licenziamento. E comunque, tali limiti non spiegano del tutto perché, a distanza di circa 40 anni, un addetto alle vendite può “avere la meglio” sui clienti mediante l’ascolto attivo mentre un manager può non avere la più pallida idea di cosa faccia funzionare i suoi dipendenti.

Ciò deriva dal fatto che i manager devono ancora affrontare un’altra più significativa barriera, ciò che definirei “il paradosso manageriale”: mentre è cruciale che i manager siano in grado di ascoltare senza pregiudizi (in modo da capire i punti di vista dell’altro e trarre valide informazioni), l’essenza del management è di fare proprio il contrario, giudicare. Ai manager viene richiesto quotidianamente di valutare linee di prodotti, mercati, numeri e, ovviamente, persone. A sua volta, essi vengono valutati sulla base di quanto bene lo facciano.

Il pericolo, quindi, è che questa predisposizione al giudizio possa sovvertire l’inclinazione dei manager ad un ascolto attento, e, così facendo, sabotare la loro capacità di fare buoni e vantaggiosi affari e di giudicare le persone. I manager possono essere tentati di risolvere tale paradosso secondo il concetto del o/o, e questo accade per buoni motivi: raramente nel corso del loro training i due tipi di atteggiamento mentale vengono riconciliati. Gran parte delle scuole di business ancora tendono a rafforzare l’ascolto valutativo, insegnano agli studenti a difendere le proprie posizioni, gareggiando gli uni contro gli altri.

E quegli esperti del comportamento che si focalizzano sull’ascolto non valutativo tendono a portare l’attenzione quasi esclusivamente sull’importanza dell’empatia. Ma se c’è una cosa che è chiaramente emersa nei 40 anni passati è che i manager devono avere la capacità di fare entrambe le cose, devono riconoscere che per dare giudizi, occorre tenere da parte i giudizi