La globalizzazione della sessualità

(di M. Pilia)

Son passati quasi cent’anni da quando Freud liberava dalla vergogna le persone omosessuali. In una lettera destinata alla madre di uno di essi, egli scriveva: “L’omosessualità, certamente, non è un pregio, ma non è qualcosa di cui ci si debba vergognare, non è un vizio, una degradazione e neppure può essere definita una malattia; noi la consideriamo come una deviazione delle funzioni sessuali, provocata da un certo blocco dello sviluppo sessuale. Molte persone stimabilissime, in epoca antica e moderna, sono state omosessuali, tra queste molti tra gli uomini più grandi (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc…): è una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un reato, ed è anche una crudeltà” (Freud,1935)

Nel 1952, l’American Psychiatric Association citava  l’omosessualità nel Diagnostic and Statistical Manual (DSM,1952) come un disordine mentale.  Esso si basava su uno studio a largo spettro dell’omosessualità come ansia latente del sesso opposto causato da eventi traumatici nelle relazioni con le figure parentali.  Ispirandosi a questa diagnosi, la maggioranza dei governi europei considerava le persone appartenenti a questa categoria come malate, qualcuno da guarire, rimettere apposto, curare. Le terapie riparative fiorivano ed i loro operatori, appartenenti a varie frange di tipo fondamentalista sia religiose che culturali, promuovevano percorsi di recupero dall’omosessualità torturando l’anima di queste persone ed infrangendo, a mio avviso, ogni regola etica che una terapia si propone.

Nonostante ciò, gli abitanti omosessuali ed i loro sostenitori nel Greenwhich Village quartiere di New York si erano organizzati in gruppi  per creare posti dove gay e lesbiche potessero esprimere liberamente la propria sessualità senza la paura di essere arrestati.  Il 28 giugno 1969  con gli scontri allo Stonewall Inn, uno di questi ritrovi ci fu una svolta: stanchi dei soliti e ripetuti raid, un gruppo di militanti appartenenti a ciò che poi prenderà il nome di movimento LGBT (Lesbian Gay Bisexual Transgender) si ribellò alla polizia. Essi riuscirono ad attrarre un gran numero di persone incitando alla sommossa. Quella notte e le notti successive una ribellione di massa fece perdere il controllo alla polizia metropolitana di New York. La memoria di questi scontri è ancora viva nelle sfilate del gay pride di tutto il mondo che appunto celebrano le diversità sessuali abbinandola ai colori dell’arcobaleno.

Da questi eventi in avanti il movimento LGBT ha combattuto per i diritti delle persone appartenenti a questa comunità liberandola sempre più dallo stigma che la storia gli aveva imposto e parificandola man mano a coloro che si percepivano nella sfera dell’etero-normalità. Nonostante ciò, l’omosessualità rimaneva un disordine mentale riportato sul DSM fino al 1973 (American Psychological Association -APA, 1973). Dopodiché venne citato come disturbo dell’orientamento sessuale e poi sostituto nella sua terza edizione del 1980, con omosessualità ego-distonica.

Ma oggi,  a più di 30 anni dalla cancellazione dal DSM dell’omosessualità come disordine mentale, cosa è cambiato? Quali sono gli ultimi passi della comunità LGBT nel percorso della propria normalizzazione? Cosa possiamo fare per sentirci a nostro agio se ci si presenta in studio un/a cliente con problemi legati alla diversità sessuale e/o all’identità di genere?

I gay, le lesbiche e i trans dei paesi anglosassoni hanno ottenuto e continuano ad ottenere il riconoscimento dei propri diritti. La liberazione del movimento LGBT ha sicuramente facilitato una nuova presa di coscienza, rafforzando la visione del sé e dell’altro; ha contribuito a rendere la sessualità dell’ individuo più fluida e a considerarla un elemento appartenente al processo naturale e all’identità dell’individuo stesso; ha spostato l’attenzione dalla vergogna all’orgoglio di essere diversi, ed ha cercato di svincolare l’omosessualità da un approccio puramente diagnostico. Se quindi da un lato il percorso della normalizzazione delle persone sessualmente diverse è  a buon punto dall’altro non è ancora terminato.

La parificazione di gay e lesbiche infatti non è coincisa con la parificazione delle persone trans e di altre sessualità. E mentre persone attratte dallo stesso sesso non sono più catalogate nel manuale in considerazione, i trans e le persone che manifestano altri tipi di sessualità vi permangono. Il DSM, che ha appena raggiunto la sua quinta edizione e finalmente ha depennato l’omosessualità dai  propri indici, sembra tuttavia voler suggerire una imposizione strutturale alla fluidità sessuale del  sé, costringendo l’individuo ad appartenere ad una determinata sessualità, impoverendolo così di curiosità, libertà e benessere sia mentale che fisico.

Parte essenziale nella rimozione dello stigma è quindi il linguaggio usato: la sostituzione della parola disordine con disforia nella diagnosi delle persone trans per esempio, non solo è più appropriata – con la terminologia sessuologica clinica familiare– ma rimuove anche la connotazione che il paziente ha un disordine mentale. Nel considerare infatti l’impatto economico e mentale che avrebbe se si volesse – dovesse – intervenire con terapie sia  ormonali sia chirurgiche, occorre considerare anche le implicazioni legali e sociali di coloro che transitano da un genere sessuale all’altro. Il DSM-V infatti specifica:  “Le persone disforiche di genere hanno bisogno di un termine diagnostico che li protegga in termini di assistenza e accesso al supporto e non venga usato contro di essi in aree sociali, occupazionali o aree legali” (APA, 2013).

L’ufficializzazione delle unioni di due persone a prescindere dal loro sesso in vari Paesi del mondo  ha segnato un passo importante nel quadro delle sessualità emergenti. Con il matrimonio gay, infatti, si è aperta la strada anche al divorzio gay. Al di là delle implicazioni economiche e sociali, quest’ultimo ha spostato l’ago della bilancia dalla sessualità e dalla fisicità del rapporto alla qualità delle relazioni e all’intimità tra due persone. Questo ha permesso a diversi tipi di sessualità di prendere coraggio e venire alla luce: gli Asessuali, i BDSM o kinky, i travestì, i polyàmori etc … ; tutte categorie latenti nel tessuto sociale etero normativo ed esistenti da sempre, silenti per paura dello stigma a cui li si associava.

Per favorire l’integrazione e ridurre la vergogna associato a queste sessualità, la comunità LGBT inglese, dopo aver aggiunto le lettera Q  di Queer (strano, con sessualità eccentrica) ed A di Asexual (asessuale) ha deciso (in una conferenza del 18 e 19 maggio del 2013 chiamata “Taboo”), di cambiare il proprio acronimo in uno più breve che comprendesse tutto ciò che esulava dall’etero-normativa trasformandolo in GSD (Gender Sexual Diversities), in cui si possono ritrovare tutte le diversità sessuali di genere. Da questa conferenza nasce anche una petizione rivolta ai capi di tutti i corpi professionali rappresentanti le discipline d’aiuto britanniche, tipo BACP (British association for counseling and psychotherapy), affinché termini la discriminazione di razza, genere e sesso. L’istanza è mirata in particolare all’ abolizione della  terapia riparativa di cui sopra, che intende cioè reprimere le sessualità a cui l’individuo percepisce di appartenere (*).

L’obiettivo finale che si desidera raggiungere non è solo quello di rendere fluida e serena la sessualità di una persona che potrebbe essere in una parte della propria vita “asessuale” ed in un’altra “etero” oppure “gay”, ma anche riabilitare la diagnosi come puro strumento delle professioni d’aiuto per sostenere la persona in difficoltà a causa della propria identità sessuale. Uno strumento che dovrebbe servire solo per facilitare il suo accesso all’assistenza sia medica sia psicologica.

È dunque necessario assumere una posizione d’ascolto attivo e creare uno spazio in cui si possano esplorare con un approccio fenomenologico i problemi della persona. In particolare, negli incontri di counseling con il cliente, è necessario normalizzare la tipologia di sessualità a cui lei/lui sente di appartenere e cercare di scoprire le cause, gli effetti e i processi legati a questa sessualità nel qui ed ora della sessione, affinché la persona possa trovare quelle che sono le proprie ragioni esistenziali, slegandole così dai contesti, familiari , culturali e gastalt varie che li cristallizzano.

L’empatia, l’apertura, la curiosità , la costante riflessione interiore sulla propria posizione e sui propri pregiudizi diventano di primaria importanza quando una persona si presenta nello studio di un counsellor con un problema legato alla propria sessualità. È essenziale ampliare le proprie conoscenze a riguardo, e questo significa impiegare ore ad informarsi e a mantenere un atteggiamento attento a ciò che ci succede intorno. In primo luogo a ciò che sta succedendo nel setting con il cliente e poi nella vita di tutti i giorni.  Nelle sedute di counseling possiamo indagare le percezioni cristallizzate del nostro cliente e, tramite la riformulazione e il silenzio riflessivo, portarlo alla creazione di nuovi scenari da integrare nel proprio bagaglio cognitivo.  D’altro canto informarsi e rimanere in ascolto di altre storie simili a quella del nostro cliente nella vita di tutti i giorni, permette al counsellor di sintonizzarsi con i propri sentimenti ed esplorare i propri pregiudizi al riguardo. Questo faciliterà non solo una maggiore empatia durante la sessione ma aiuterà la crescita di cliente e professionista.

(*)  Per sottoscrivere la petizione clicca qui:

Petition | UKCP, BACP, BPC, BPS (Counselling Psychology), Other Training Orgs: End Discrimination on Grounds of Race, Gender and Sexual Diversity | Change.org


Marco Pilia, counselor, ipnoterapeuta e docente CIPA