Distante ma incredibilmente vicino

La relazione counselor-cliente tra empatia e sani confini

(di P.Traversa)

L'empatia è la capacità del counselor di "vedere" con gli occhi del cliente; è necessario capire ed utilizzare il suo stesso schema di riferimento, la sua mappa, per poter comprendere il suo modo di percepire gli eventi. Nel momento in cui ci poniamo all'ascolto dell'altro in modo empatico, condividendo il suo schema di riferimento, si dissipa - come d'incanto - il nostro. In questo modo perdiamo la tendenza al confronto e al giudizio e ci poniamo nella situazione migliore per comprendere quello che il cliente sta vivendo, rimandandogli ciò che lui ci comunica in modo da dargli la possibilità di vedere dentro sé stesso.

 

            "Il counselor in effetti dice: "Per esserti vicino metterò da parte me stesso.....diventerò, in un certo senso, un altro sé per te...... un'occasione per te di esaminarti con maggiore chiarezza, di viverti con maggiore profondità e verità, di prendere decisioni più importanti"

(Carl Rogers. Terapia centrata sul cliente)

 

Questo è però ben diverso dall'idea di "diventare" l'altro, di vivere sulla nostra pelle i tormenti dell'altro. Il counselor, nel processo empatico, rimane comunque se stesso, deve porre tra sé e l'altro dei sani confini, ciò è assolutamente necessario affinché il suo lavoro di aiuto sia efficace.

Immagino il rapporto tra counselor e cliente in questo modo: penso al cliente come ad una persona che deve percorrere un sentiero dissestato e si trova in una situazione fisica non perfetta: ha una caviglia slogata o un ginocchio dolorante. Cerca quindi l'aiuto di qualcuno (il counselor) che possa agevolargli il cammino. Come dovrà agire questo accompagnatore affinché la persona possa raggiungere la sua meta nel migliore dei modi? Credo che debba "sintonizzarsi" sull'altro, sui suoi disagi. Immaginerà la difficoltà dell'altro nel posare il piede a terra, nel caricare il peso sul ginocchio dolorante. Asseconderà il passo incerto dell'altro ma nello stesso tempo sarà ben attento, tenendo quella giusta distanza dal corpo dell'altro, a mantenere l'equilibrio evitando di precipitare insieme a lui. È proprio questa l'operazione che deve compiere il counselor: comprendere l'altro cercando di sentire ciò che lui sente ma nello stesso tempo rimanere se stesso mantenendo la giusta distanza per evitare un coinvolgimento che metterebbe a rischio l'efficacia dell'aiuto.

 Questo atteggiamento, che un bravo counselor dovrebbe sempre avere nella relazione con il cliente, piuttosto semplice a parole è altrettanto semplice da mettere in atto? Porsi empaticamente di fronte al cliente, quindi comprendere profondamente il sentire dell'altro senza "interferenze" provenienti dal nostro vissuto o comunque dal nostro modo di vedere la vita, porre tra noi e il cliente dei precisi confini che ci permettano di mantenere la giusta distanza necessaria ad evitare di ritrovarci invischiati in emozioni che non ci appartengono, è un'operazione che "viene da sé"? Personalmente ritengo che in parte si tratti di un atteggiamento che il counselor naturalmente assume nel momento in cui, durante la sua formazione, ne comprende bene i termini ed il suo insostituibile valore. Tuttavia ritengo anche che sia indispensabile mettere in atto consapevolmente delle strategie che facilitino il rimanere in quella particolare condizione di "empatia/sani confini".

Primo, tra tutti i possibili strumenti a disposizione del counselor per raggiungere tale obiettivo, è il continuo impegno alla propria crescita personale. Uno dei rischi che il counselor incontra nella relazione con il cliente è di essere sopraffatto da risonanze. Se il problema che il cliente porta nel colloquio fa "risuonare" qualcosa del vissuto del counselor è facile che egli perda quella neutralità così importante per l'efficacia del lavoro. È facile che il cliente porti problematiche che il counselor possa aver vissuto in prima persona, i problemi che si affrontano nel counseling sono problemi che chiunque può aver vissuto. Se il counselor  ha avuto modo di vivere un'esperienza analoga, che ha turbato la sua vita ma sulla quale non ha lavorato a sufficienza, il lavoro con il cliente può riportare alla coscienzail malessere vissuto allora con le immaginabili conseguenze. Il counselor può sentirsi risucchiato dalle emozioni del cliente perdendo la capacità di distinguere a chi esse appartengono, oppure può essere tentato di suggerire letture della situazione, o addirittura soluzioni, che riguardano il suo vissuto ma che molto probabilmente non sarebbero quelle giuste per il cliente. Se invece il counselor, nel suo percorso di crescita personale, ha avuto modo di esplorare le sue problematiche, di elaborarle in un processo di presa di consapevolezza, accettazione e magari cambiamento, tali vissuti non solo non inficeranno il suo lavoro con il cliente che sta vivendo la stessa esperienza ma il lavoro compiuto su se stesso avrà dato al counselor una sensibilità verso tali problemi che si rivelerà preziosa nell'aiuto dell'altro.

 Altro strumento di enorme valore che il counselor può, o meglio deve, utilizzare è la supervisione.

Per quanto sia stato approfondito il suo lavoro personale, per quanto sia stata accurata e completa la sua formazione, per quanto sia continuo il suo aggiornamento, c'è comunque la possibilità che si  presentino momenti in cui egli potrà sentirsi in difficoltà di fronte ad un cliente. È questa una difficoltà che non dipende da tutte le buone pratiche che ho appena citato ma dal fatto che, come spesso si dice, il cliente può scegliere il suo counselor ma il counselor non può scegliere il cliente. Questo comporta il fatto che il counselor si possa trovare di fronte a situazioni che, suo malgrado, non è in grado di gestire. Possono essere ancora risonanze ma anche difficoltà ad accogliere il cliente per delle incompatibilità più o meno profonde che mettono in crisi la capacità del professionista di mantenere un atteggiamento neutrale e non giudicante. Altre volte il cliente può essere un soggetto abilmente manipolativo che in qualche modo riesce ad "agganciare" il counselor, magari facendo leva su qualche suo punto debole, facendo saltare quei sani confini di cui abbiamo prima detto. In questi, ed in molti altri casi, la supervisione può rimettere il counselor sul giusto sentiero, aiutandolo a dare la giusta lettura della situazione e a riposizionarsi in modo corretto.

 Un ulteriore importante strumento, che permette al counselor di raggiungere uno stato di "mindfulness", indispensabile per creare una giusta relazione con il cliente che possa rendere efficace il suo lavoro, è la pratica meditativa.  Secondo la definizione di Jon Kabat-Zinn, fondatore del Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society presso la University of Massachusetts Medical School, "Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare: a) con intenzione, b) al momento presente, c) in modo non giudicante”. La pratica meditativa ci insegna a "sospendere il giudizio".

Sedersi in meditazione non vuol dire, infatti, sospendere il pensiero ma lasciarlo scorrere mantenendo un atteggiamento non giudicante, da osservatore distaccato ma partecipe all'esperienza nel qui ed ora. Si capisce quindi quanto sia utile ad un counselor avere familiarità con questa pratica.

Una buona formazione e l'utilizzo coscienzioso di questi strumenti renderanno capace il counselor di assumere, nella relazione con il cliente, l'atteggiamento giusto per ottenere dal suo lavoro il migliore risultato. Starà seduto di fronte al cliente con la mente libera dai suoi pensieri, sospendendo ogni giudizio, in  profonda empatia pur mantenendo dei sani confini.

 

Prisca Traversa, 

Counselor Relazionale, Tutor Cipa