L'arte del counseling

L’arte del counseling

Rollo May, Astrolabio

 

L’opera è stata per tanti anni l’unico libro dedicato a chi, pur non desiderando diventare psicologo o psicoterapeuta, svolge un lavoro che richiede una certa conoscenza della personalità umana.

Consigliare gli altri, sia nell’ambiente scolastico, religioso, ospedaliero o aziendale, richiede una profonda empatia, la comprensione del carattere e delle tensioni interne della personalità, la capacità di accettare e rispettare gli altri senza falsi moralismi, l’umiltà di non imporre le proprie scelte di vita.

L’autore spiega come il compito del counselor sia quello di favorire lo sviluppo e l’utilizzazione delle potenzialità del cliente, aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nel mondo esterno.

Dopo essersi soffermato sulle caratteristiche della personalità sana ed equilibrata – libertà, individualità, integrazione sociale e tensione religiosa – May descrive gli aspetti fondamentali del processo del counseling distinguendo quattro fasi: prendere contatto, stabilire il rapporto, confessare il disturbo e interpretare.

La fase conclusiva del superamento del problema, la vera trasformazione della personalità, spetta solamente al cliente: il counselor può solo guidarlo, con empatia e rispetto, a ritrovare la libertà di essere se stesso.

La domanda dalla quale ogni counselor dovrebbe partire per mettere in atto la sua opera di guida verso la presa di coscienza da parte del cliente è: che cosa è un  essere umano?

Il counselor infatti deve affrontare le nevrosi del cliente , cioè uno stato funzionale della sua personalità, non le psicosi dello stesso, cioè stati patologici che includono molte forme di malattia mentale, la cui cura spetta invece allo psicoterapeuta.

Si parta quindi dalla consapevolezza che l’individuo in quanto tale  pur essendo corpo è anche anima- dal greco psiche-, o meglio personalità, ossia quella parte dell’individuo comprendente:

  • la libertà: caratteristica che distingue l’uomo dall’animale, la quale, secondo Otto Ranck, cresce in modo proporzionale rispetto alla capacità dell’individuo di plasmare in modo creativo gli elementi della vita;
  • l’individualità: cioè la consapevolezza che ogni individuo è differente dagli altri della stessa specie e che quindi è unico e la sua salute mentale dipende fondamentalmente dalla consapevolezza di questa unicità. Fu Carl Jung a definire il concetto di individualità come caratteristica basilare per la comprensione della diversità degli esseri umani. Egli infatti diede un'ampia trattazione sull'analisi del ruolo che ognuno di noi occupa all'interno della società. Jung definì Persona il nostro aspetto esteriore che viene inserito in un ruolo e che regola le nostre relazioni più superficiali. Jung prese in prestito il termine Persona dal latino Persōna, ovvero la maschera che gli attori solevano indossare durante le rappresentazioni sceniche. La Persona era un riflesso dell'immagine del personaggio interpretato dall'attore, ne riprendeva i lineamenti, lo caratterizzava, lo inseriva, appunto, in un ruolo. Secondo Jung, la Persona è un segmento dell'inconscio perché, come l' inconscio collettivo è anch'essa universale: è una maschera della psiche collettiva che simula l'individualità. La Persona non è reale, è un compromesso tra individuo e società: l'individuo si cala in un ruolo sociale attraverso il quale interagisce nella collettività. La società, infatti, richiede ad ognuno di noi di espletare un ruolo che spesso non ci appartiene totalmente o, comunque, ci rappresenta solo in parte. La Persona è funzionale all'adattamento dell'uomo, in quanto gli permette di modularsi e presentarsi in base alle richieste dell'esterno.: incarnare un ruolo, soprattutto se questo è socialmente condiviso, aiuta a semplificare le relazioni. Ma c'è un rischio dice Jung: che la Persona si identifichi con l'Io. Secondo Jung questa non è affatto cosa buona e giusta: il rischio che si corre è un completo appiattimento del proprio essere in funzione del perpetuamento di un ruolo sociale. La Persona può annichilire l'animo umano privando l'individuo di tutta quella ricchezza, poliedricità, di tutto lo spettro affettivo, emozionale, cognitivo che caratterizza l'essere umano. Incarnare un ruolo che non ci appartiene mette in ombra la nostra vera essenza , toglie forza al nostro vero essere privandolo dell'energia necessaria per esistere. Quando questo accade, l'uomo, secondo Jung, ha preso la superstrada per cadere e ingabbiarsi nella nevrosi che definisce frustrazione da nullità, una delle più grandi sofferenze dell'animo umano. La frustrazione da nullità nasce quando ci si rende conto del soffocamento dell'Io rispetto ad una glorificazione del ruolo e nasce la coscienza del tempo impiegato non per far vivere se stessi ma per sopravvivere all'interno di un'etichetta predisposta.
  • l’integrazione sociale: cioè la maggiore o minore capacità degli individui di adattare la propria personalità alla società nella quale essi vivono. Alfred Adler evidenziò la necessità di analizzare il comportamento sociale dell’individuo prima di poterne definire le caratteristiche della personalità. Adler è il teorico della psicologia individuale ma, mentre Freud vede la vita dell'uomo in funzione del passato, Adler la legge in funzione del suo avvenire e questo perché l'individuo è guidato dal desiderio di superiorità, dalla ricerca di somiglianza divina, dalla fede nel suo potere psichico. La volontà di potenza, il sentimento sociale e la finzione sono le tappe principali del percorso. Le tappe sono secondarie rispetto alla capacità che egli ebbe di superare le antinomie freudiane spostando la sua attenzione dalle cause alle mète. Sintetizzare l'evoluzione della Psicologia Individuale Comparata è di certo un'operazione riduttiva e non semplice da compiersi.

Il termine stile di vita comprende, per Adler la modalità con la quale l'individuo si muove verso la meta servendosi dei mezzi che ritiene di avere a sua disposizione e cioè della percezione soggettiva che ha di Sé. Lo stile di vita si forma nella primissima infanzia, è definito nelle sue linee fondamentali già all'età di cinque anni. È la risposta che l'individuo fornisce per muoversi nel suo contesto ambientale originario che, in genere, è costituito dalla famiglia. Per questo motivo Adler dedicò molta attenzione allo studio della "Costellazione Familiare", cioè della posizione di nascita del bambino rispetto ai fratelli e della relazione e delle caratteristiche degli altri membri della famiglia. Inoltre Adler, con lo studio dei "Primi Ricordi Infantili", per primo mise l'accento sul valore proiettivo dei ricordi che restituiscono l'impronta dell'attuale personalità. I primi ricordi sono l'impronta, non la causa. Né è importante stabilire se sono reali o frutto di elaborazione di fantasia: importa sapere che dalla loro interpretazione si ottengono informazioni essenziali per comprendere lo stile di vita dell'individuo e per riconoscere le sue mete. L'analisi dello stile di vita costituisce il fulcro dell'analisi adleriana. Nell'uomo ci sono due istanze innate esprimibili come: volontà di potenza intesa come bisogno innato di sopravvivere e di affermarsi e come sentimento sociale da intendersi sia come sentimento di cooperare con la comunità, sia di compartecipare emotivamente con gli altri individui.La coesistenza di queste due istanze rappresenta la salute mentale, mentre il loro conflitto porta alla nevrosi . Adler, che era un acuto osservatore e che costruì tutta la sua teoria partendo dall'attenta osservazione, constatò che ogni individuo tende verso l'alto, cioè si muove da una posizione vissuta come inferiore, ad una meta di superiorità. Nasce il termine volontà di potenza , di matrice nietzcheana, che spiega il motivo per cui l'individuo tende a reagire alla propria inferiorità spostandosi verso l'alto, usando gli artifici nevrotici nel suo cammino. Per Adler l'uomo è un essere sociale e la tendenza verso il sociale è innata. Questa concezione spiega perché Adler aggiunse al nome della "Società di Psicologia Individuale" il termine "Comparata". Egli sosteneva che l'uomo non può essere compreso se non viene osservato all'interno del contesto sociale con il quale interagisce. Il sentimento sociale lo avvicina alla dottrina di Erich Fromm per il quale l'uomo diviene sociale per sfuggire alla solitudine. L'innatismo del sentimento sociale è forse l'unico aspetto dogmatico della teoria adleriana ma si deve riconoscere che l'esistenza di un buon rapporto con gli altri, che mantenga inalterata la propria individualità ma che faccia sentire l'individuo partecipe del suo contesto umano, è elemento essenziale di un buon equilibrio psichico. Il sentimento di inferiorità caratterizza il bambino alla sua nascita ed è fisiologico nell'infanzia. Si trasforma in complesso di inferiorità nell'adulto quando vengono a mancare le condizioni educativo-ambientali che consentono al bambino di liberarsene nel corso della crescita. Ad accentuare il complesso di inferiorità possono concorrere quella che Adler chiama inferiorità d'organo , intesa come insufficienza fisica o estetica e la costellazione familiare intesa come rivalità fra i fratelli a cui Adler attribuisce un'importanza maggiore che ai genitori. La compensazione è una delle modalità che la volontà di potenza usa per superare il sentimento di inferiorità. La compensazione non deve essere vista solo come artificio nevrotico ma anche come elemento di superamento dell'inferiorità. Adler distingue tra compensazioni e supercompensazioni e tra compensazioni positive e negative: quelle negative e la supercompensazione interferiscono con il sentimento sociale. 

  • la religione: altro condizionamento sociale è infatto dato dalle imposizioni dettate dalle religioni che tendono a considerare gli individui come fossero un unico individuo, non tenendo conto affatto delle diverse e molteplici personalità che li caratterizzano.

Il concetto di personalità fu scoperto e analizzato a fondo da Freud, il quale suddivide la psiche o personalità inn tre parti:

  • Io:la parte cosciente e consapevole di noi stessi, o meglio la parte con cui identifichiamo noi stessi e che ci fa adeguare alla realtà;
  • Es:la parte "primordiale", inconscia e non consapevole che è "governata" dagli istinti e dalle pulsioni;
  • Super Io:la parte della mente che – in modo "automatico" – governa i nostri impulsi e li censura, ad esempio facendoci vergognare o sentire in colpa, oppure dicendoci che "questo o quello" non si possono fare perché sono azioni da persone cattive, oppure sono cose maleducate o sconvenienti.

Per arrivare a conoscere l'Es, oltre alla “cura delle parole”, Freud usava l'interpretazione dei sogni, ricchi di simboli e significati: la “via maestra verso l'inconscio”. In questo modo Freud ha elaborato la “Teoria dell'inconscio” e fondato un nuovo metodo terapeutico per trattare i disturbi che, ai tempi, segnò una specie di rivoluzione e fu adottato da molti altri suoi colleghi.

Il counseler deve quindi individuare il conflitto, farlo emergere dall’inconscio rendendolo manifesto e alleviarso attraverso il processo di liberazione dal complesso, cioè con il ristabilire una certa unità funzionale nella mente del cliente.

 

 

Sebbene poi sia corretta la considerazione tipica della psicoanalisi che il nevrotico soffra di una frammentazione delle funzioni mentali e che dunque un individuo è sano tanto più  quanto si avvicina ad una condizione di equilibrio e unità, è pur vero che l’unità definitiva della personalità non è possibile, poiché essa è dinamica e creativa, non statica e vegetativa: dunque risulterà altrettanto impossibile eliminare definitivamente il senso di colpa che spesso conduce l’uomo alla scissione della propria personalità nonché all’inquietudine.

Il senso di colpa nasconde sempre qualcosa di più profondo, che non sempre spetta al counselor indagare. Il counselor può provare a far entrare il cliente nel suo senso di colpa, fino al punto in cui ciò è legato al problema contingente oggetto della seduta; nel momento in cui si va verso il passato il counselor deve però stare attento a fermarsi prima di entrare in un ambito psicoterapico che non gli compete.

 Il senso di colpa infatti è la percezione della differenza fra ciò che una cosa è e ciò che dovrebbe essere ed è dunque un sentimento imprescindibile dell’esistenza umana, in ogni ambito e in ogni suo aspetto: Rank sostiene che esso nasca dall’autocoscienza morale, cioè dalla presa di coscienza dell’impossibilità di perfetto equilibrio nei processi sociali e morali nel mondo.

Altra tematica importante è quella della tensione creativa, cioè di quel tentativo perenne dell’individuo di migliorare se stesso e di rendersi migliore rispetto all’altro: i fattori esterni possono condizionare gli squilibri della personalità ma sono i fattori interni, cioè le tensioni a creare la nevrosi o il disturbo psichico che conduce l’individuo alla mancanza di equilibrio.

A questo punto si può cominciare  ad analizzare il modo in cui funziona la personalità. La risposta si trova nel concetto di empatia, cioè di “sentire dentro”. Il conselor infatti deve giungere ad una identificazione della personalità  profonda al punto da sentirsi dentro l’altro tanto da perdere temporaneamente la propria identità. Il concetto di empatia nasce dall’esperienza artistica: chi intende fare l’esperienza estatica di un oggetto deve infatti identificarsi con esso, perdere se stesso nell’oggetto. Ciò accade grazie alla capacità di utilizzare il linguaggio dell’altro: il linguaggio è dunque il canale ordinario dell’empatia, quello attraverso il quale avviene, per dirla come Jung, l’incontro di due personalità come il contatto di due sostanze chimiche. Dunque l’empatia è a sua volta uno degli aspetti del transfert psichico, ossia di quel processo per il quale sono i gesti, le espressioni e non il linguaggio a far sì che l’altro possa comprendere l’individuo che gli sta dinanzi.

A tal proposito la discussione sull’empatia porta a parlare dell’influenzamento, che è uno dei suoi aspetti principali. Esso consiste nel processo che opera sull’inconscio da parte di un elemento esterno rispetto alla persona in questione. Esistono vari tipi di influenzamento:

  • influenzamento delle idee: si ha quando l’individuo fa sue le idee di altri individui;
  • influenzamento temporaneo sulla personalità: si ha quando in un incontro tra due individui, l’uno subisce temporanemente l’influenza nei gesti e nei modi di parlare dell’altro;
  • influenzamento di fondo sulla personalità: si ha quando un individuo fa proprio il modello di personalità dell’altro o il suo ruolo.

 

Poste queste premesse andiamo ora ad indagare quali siano i punti che guidano il counselor alla lettura del carattere, tenendo conto del fatto però che si tratti comunque di ipotesi basate su un gran numero di fattori differenti. La prima fase dell’analisi del counselor dunque si pone di individuare gli aspetti più rilevanti della personalità del cliente e di entrare in empatia con quest’ultimo.

Fondamentali a questo proposito sono i gesti  e le espressioni facciali del cliente, nonché il tono della voce, ma anche le dimenticanze ed i lapsus.

In psicoanalisi, i lapsus sono inquadrati all'interno della categoria più generale degli atti mancati. Essi sono considerati forme di espressione indiretta dell'inconscio: l'errore che prende corpo nel lapsus, secondo Freud, è solo apparentemente casuale. Il lapsus non solo sarebbe la manifestazione di un desiderioinconscio che affiora e trova, così, soddisfacimento, ma costituirebbe anche un canale attraverso il quale trovano sfogo pensieri che, altrimenti, resterebbero rimossi dalla censura.

Il lapsus freudiano è un fenomeno psicologico che prende nome da Sigmund Freud, che lo descrisse per la prima volta Psicopatologia della vita quotidiana (1901).

Nella teoria psicoanalitica, si suppone che i contenuti che l'inconscio esprime attraverso i lapsus siano, in generale, di natura sessuale, sebbene questo non sia sempre evidente dal loro contenuto apparente.

Altamente rilevante per la comprensione della personalità da parte del counselor è l’ambito della costellazione familiare del cliente, ossia il ruolo che esso riveste nella famiglia di appartenenza: motivo per il quale il secondo genito tenderà a sviluppare un’ambizione esagerata e l’abitudine a lottare per raggiungere la supremazia attribuita per natura al primogenito; o per il quale il figlio unico avrà maggiore possibilità di sviluppo vedendo concentrati su di se gli sforzi educativi di entrambi i genitori.

Una volta preso contatto con il cliente comincia la seconda fase del colloquio del counselor: la confessione.

Tale procedimento si svolge in diverse fasi:

  • in primo luogo chi parla in questa fase è il cliente il quale, ormai libero da ogni forma di inibizione iniziale, mette in campo uno scambio dal subcconscio alla coscienza liberando il canale di cominicazione e diventando sempre più obiettivo nei confronti della propria problematica;
  • il counselor deve saper orientare la confessione del cliente in direzione del problema centrale;
  • il counselor deve inoltre non lasciarsi scandalizzare ne offendere, evitando dove possibile le crisi emotive e di pianto che spesso sono segno di una cattiva conduzione del colloquio con il cliente stesso: il counselor deve quanto prima riportare il cliente preda di tale crisi all’equilibrio inziale e riprendere la confessione.

La terza fase  del colloquio del counselor è l’interpretazione: una fase data dal lavoro congiunto tra counselor e cliente. Il primo deve a questo punto essere capaca di leggere il significato delle reazioni del cliente ai suggerimenti e fornire appunto interpretazioni senza mai affermarle in maniera dogmatica.

Vi sono infatti dei limiti ben definiti all’azione investigativa del counselor che non potrà scoprire l’intero modello della personalità dell’individuo ma deve ascoltare con obiettività e aiutare il cliente a confessare ed esprimere alcuni aspetti del problema, in secondo luogo aiutarlo a comprendere le radici più profonde della sua personalità evidenziando i rapporti che daranno al cliente una nuova comprensione di se stesso mettendolo così in grado di risolvere il problema di partenza.

Per rimanere sempre più obiettivo dunque il counselor deve prendere appunti nel corso della seduta, anche per limitare le proprie aspettative e dare al colloquio un’impronta di professionalità: posto che gli appunti alla fine del colloquio saranno distrutti.

Il numero delle sedute dipende comunque dal caso in questione sebbene sia necessario dare un appuntamento preciso al cliente e non proporre sedute prolungate.

L’ultima fase dell’ analisi del counselor è la trasformazione, momento che prevede il dare una nuova forma alla personalità del cliente modificandone non tanto il contenuto quanto la struttura e creando un nuovo equilibrio nelle varie sfaccettature da cui essa è costituita.

Il counselig, operando in una sfera più profonda del semplice dare consigli superficiali, giunge a delle conclusioni come risultato del lavoro congiunto della personalità del cliente e del counselor, che operano allo stesso livello.

La personalità del cliente deve rimanere autonoma, libera da decisioni pre-determinate o determiante da altri.

Dunque è possibile utilizzare la suggestione come tecnica di influenzamento della personalità da parte prima di tutto dell’ambiente nel quale ogni individuo vive e sviluppa la propria personalità, sebbene sia sempre compito della singola personalità ovvero del singolo individuo, decidere quale suggestione prendere in considerazione e quale invece eliminare.

Il counselor deve quindi proporre al cliente ogni alternativa  costruttiva utile alla soluzione del problema, ma sarà poi l’inconscio del cliente stesso a decidere quale prendere in considerazione appunto e quale non tenere presente.

Il counselor può inoltre fare leva sull’influenza che deriva dal rapporto empatico: egli ha un’influenza sul cliente e viceversa e dunque entrambi sono condotti a interagire orientando il proprio umore, le proprie emozioni in funzione delle rispettive emozioni dell’altro.

Altrettanto importante per il counselor e per la riuscita delle sedute è lo sfruttamento della sofferenza del cliente: il counselor deve saper incanalare la sofferenza del cliente nevrotico in modo che questa gli fornisca l’energia necessaria a operare la trasformazione del suo carattere. La sofferenza è infatti una delle forze potenzialmente più creative presenti in natura ed il suo circolo vizioso può trasformarsi in energia creativa, basti pensare ai più grandi artisti e alle loro maggiori opere nate appunto dopo momenti di enorme sofferenza e difficoltà emotiva.

Il counseling non ha lo scopo di alleviare la sofferenza del cliente, bensì di utilizzarla a favore della buona riuscita dei colloqui e della risoluzione del problema di partenza.

Le caratteristiche della personalità di un buon counselor sono dunque:

  • simpatica
  • capacità di saper stare con gli altri
  • capacità di empatia.

Si tratta di qualità innate ma che vengono poi levigate dall’esperienza e dallo studio.

Il counselor deve essere sempre spaventato dalla possibilità del proprio fallimento poiché ciò lo spingerà ad agire sempre con coscenziosità e premura; egli dovrà essere dunque ambizioso e determianto.

Dovrà poi sviluppare il coraggio dell’imperfezione, ossia la consapevolezza della possibilità di commettere degli errori, ma anche imparare a godere del processo stesso della vita quanto delle sue mete, cioè deve riuscire a provare piacere di ogni situazione della vita tenendo sempre presente la meta che di volta in volta gli si pone dinanzi.

Infine il counselor deve avere a cuore il benessere della gente.

Ciò che colpisce particolarmente è il modo originale ed innovativo in cui il May considera la sofferenza e il sentimento di dolore del cliente. Si ritiene difatti spesso che aiutare nel vero senso della parola un  cliente voglia dire instaurare con lui un rapporto tale da alleviare il disagio che rende impossibile allo stesso lo svolgimento sereno della propria vita. Quest’opera insegna che ciò può risultare veritiero soltanto nella fase finale del percorso di counseling, ovvero quando il superamento del problema iniziale, dopo la crescita e il potenziamento del cliente, ha migliorato la sua percezione di benessere, quello stesso che precedentemente mancava. Tuttavia il percorso di maturazione e miglioramento che il cliente è portato a percorrere continuerà ad implicare, nella sua prima fase, uno stato di ulteriore sofferenza, e questa stessa sarà poi considerata come l’arma migliore per crescere appunto e abbandonare la condizione precedente di blocco emotivo, di staticità vitale. È con quest’opera appunto che May invita i futuri counselors a non sviluppare un eccessivo e malsano attaccamento al cliente poiché ciò comprometterebbe la sua reale ed effettiva autonomia; il counselor deve imparare ad orientare la sofferenza del cliente , canalizzandola in maniera costruttiva.

Altra riflessione particolarmente rivelatrice sta nella concezione del modo di intendere la propria partecipazione alla dimensione spirituale e religiosa. 

May inizia la sua riflessione evidenziando come la religione, così come altre forme di espressione della cultura umana come la letteratura, la poesia, la stessa filosofia, abbia una tendenza pericolosamente nevrotica ogni qual volta separi l’individuo dagli altri esseri umani, ogni volta cioè che viene a mancare quell’interazione sociale, che è espressione di salute nell’individuo. Si potrebbe anche dire che l’uomo religioso vive correttamente la propria dimensione religiosa quando quest’ultima è caratterizzata da una certa spontaneità e apertura nei rapporti interpersonali. Se ciò non avviene, è legittimo pensare che la propria dimensione religiosa venga usata come mezzo per nascondere la propria incapacità o anche il timore  di vivere rapporti interpersonali e quindi per nascondere un atteggiamento di tipo nevrotico.

Ne sono un esempio quelle persone ritenute dai più eccessivamente “moralistiche”, quelle persone cioè che puntano spesso l’indice verso qualcuno o qualcosa per sminuirli, colmando in questo modo il proprio senso di inferiorità. Secondo May, infatti, le persone religiose che avvertono un senso di inferiorità e di conseguenza esagerano nella loro ambizione, non riescono a trattenersi dall’emettere giudizi morali sugli altri. In questo modo, dal momento che la competitività del loro io si esercita nell’area della morale, la svalutazione degli altri in tale ambito significherà il loro prestigio. Ma ciò porta inevitabilmente ad una maggiore distanza nei rapporti umani in quanto il “giudicare” e il “sentenziare” compromette in partenza un rapporto interpersonale, in quanto chiude immediatamente il dialogo invece di mantenere un atteggiamento di apertura che favorisce tale relazione. Il moralista, insomma, non può avere una vita interpersonale sana e ben sviluppata anche perché è proprio quello che, sebbene inconsciamente, non vorrebbe avere. 

L’importanza di queste considerazioni dunque interessa il counselor alle prime armi così come il counselor con esperienza poiché anche questi deve ricordare i principi fondamentali che portano all’esplorazione dell’essenza del cliente che di volta in volta gli si presenza innanzi nel corso di una o più sedute.