La Supervisione nel counseling

La supervisione nel counselling

Stefano Masci, Franco Angeli, 2015

 

La professione del counselor è molto difficile poiché opera in un campo in piena e continua evoluzione e dunque prevede che ci sia un continuo aggiornamento e approfondimento delle tecniche , nonché una continua analisi e introspezione psicologica di se prima ancora che del cliente.

Ancora più rimarcata appare quindi la differenza tra il counselor e lo psicologo: il primo lavora sul sostegno ai gruppi, sull’attivazione di risorse personali al fine di favorire le potenzialità dell’individuo e accrescere le sue abilità di relazione e di comunicazione.

Il counseling è quindi un intervento rivolto all’individuo con lo scopo di sostenerlo e di attivare in lui le risorse utili per affrontare il problema; dunque si agisce per favorire la crescita  della persona tramite una sorta di cambiamento e miglioramento della qualità della vita e di relazione.

Mentre quindi il counselor ha il compito, tramite la sua azione, di ridare la libertà al cliente, quest’ultimo si rivolge al counselor se ha raggiunto la consapevolezza di vivere delle difficoltà che limitano il proprio potenziale creativo e la propria capacità di risoluzione dei problemi della vita quotidiana.

Le principali competenze che il counselor deve possedere sono appunto:

  • la capacità di ascolto, cioè la capacità di ascoltare il cliente senza interromperlo o intervenire;
  • la capacità di osservare, ossia di comprendere il linguaggio non verbale , quello della gestualità, delle espressioni del viso;
  • la conoscenza della conduzione del colloquio, cioè l’abilità di padroneggiare ognuna delle fasi del colloquio stesso;
  • la conoscenza dei modelli teorici, cioè degli insegnamenti ricevuti nella scuola di formazione;
  • il padroneggiare il cambiamento, ossia l’abilità di accettare il proprio cambiamento prima di condurre il cliente al cambiamento stesso.

 

Assai importante è a questo punto l’introduzione della figura del supervisore, ossia di colui che ha il compito di controllare lo svolgimento dell’attività del counselor.

La supervisione del counseling è dunque un’esplorazione dell’attività del counselor con i suoi clienti. Il supervisore è un professionista che deve incoraggiare lo sviluppo sempre maggiore delle competenze professionali del supervisionato, il quale a sua volta deve  per regolamento e periodicamente ricorrere alla supervisione ( una seduta ogni dieci con i clienti).

Il compito del supervisore è inoltre quello di fornire al counselor un vero e proprio supporto dal punto di vista emotivo, affinchè questo possa svolgere al meglio la propria professione.

Il counselor dal suo canto utilizza l’incontro con il supervisore per esternare le sue emozioni ma anche i suoi dubbi e le incertezze dal punto di vista tecnico e metodologico.

Dunque il ruolo del conseling- supervision è quello di comportarsi con il counselor come quest’ultimo con il cliente, di aiutarlo nello sviluppo delle sue abilità attraverso l’utilizzo di materiali quali video, foto, registrazioni o osservazioni dirette, di relazionarsi con il counselor in modo professionale in modo da far si che questi possa partecipare con lui e fornirgli le informazioni necessarie alla collaborazione con lo stesso.

Il supervisore deve in sintesi:

  • approfondire le modalità di intervento usate dal counselor
  • aggiornare il counselor
  • far si che questi gestisca al meglio lo stress
  • rispondere alle domande poste dal counselor.

 

Per diventare supervisore la normativa europea proposta dall’EAC dal gennaio 2012, propone:

  • 500 ore di formazione di counseling presso una scuola riconosciuta e accreditata
  • almeno 1500 ore di counseling in sei anni
  • 150 ore di aggiornamento professionale su temi legati al counseling
  • almeno 85 ore di supervisione- supervisori con un supervisore autorizzato
  • 30 ore in aula di formazione specifica sul ruolo del supervisore
  • copertura presso un’assicurazione professionale.

 

Attualmente la maggior parte delle scuole europee sta tenando di uniformare i metodi  di insegnamento del counseling alle direttive dell’associazione europea per il counseling, lo stesso sta accadendo in Italia: per tutti comunque è richiesta la presenza della supervisione per la professione del counselor.

Negli USA sia il counselor che lavora come privato, sia quello che lavora nelle strutture pubbliche, deve provvedere ad organizzare la propria supervisione. Essi sono iscritti all’ACA- american counseling association- la cui normativa prevede l’obbligo dell’azione di un supervisore che possa controllare l’azione del counselor periodicamente.

In Inghilterra vi è invece la BACP- British association for counselling and psychotherapy- il cui nome evidenzia immediatamente come si veda l’azione del counseling unita a quella della psicologia. Dunque la figura del supervisiore agisce indifferentemente con il counselor così come con lo psciologo e lo psicoterapeuta.

In Svezia vi è poi la RACS- register of accredited counsellors in Sweden- la cui normativa prevede che il supervisore tenga continuamente  aggiornato il counselor sulle tecniche e sui modelli da applicare all’azione del counseling.

In Irlanda invece vi è la IACP, per la quale la supervisione è un accordo formale tra un counselor o uno psicoterapeuta e una persona esperta nel counseling e nelle supervisione.

La supervisione in questo senso è un procedimento indispensabile per mantenere livelli adeguati nel counseling e per permettere al counselor di operare con efficacia.

Diventare supervisore prevede dunque un percorso distinto e nettamente separato dalla semplice pratica del counseling, infatti egli necessita di una preparazione specifica e di un aggiornamento continuo poiché il compito che gli si propone è delicato e difficile da praticare con serietà e professionalità.

Fondamentale a tal proposito è il concetto di triade didattica, la quale prevede la presenza di counselor, cliente e supervisore, i quali devono interagire l’uno con l’altro e durante il quale l’allievo counselor dopo aver concluso il suo incontro con un cliente, riceve i feedback dal supervisore.  Solo a questo punto il counselor allievo farà il supervisore, il cliente farà il counselor e chi faceva prima il supervisore diventerà il cliente.

Il processo di formazione del counselor avviene per fasi espresse magistralmente dal ciclo di Kolb, o ciclo dell’apprendimento il quale prevede il susseguirsi, a partire da ognuno delle singole fasi indistintamente:

  1. dell’ esperienza concreta – il miglioraramento dell’azione del counselor si ha di fatto con l’esperienza-;
  2. dell’osservazione e riflessione – cioè dall’attenta osservazione e dalla riflessione successiva sull’atteggiamento e sull’azione del supervisore-;
  3. della concettualizzazione astratta- cioè partendo dalle riflessioni della fase precedente, il counselor dovrà creare dei concetti propri-;
  4. della sperimentazione attiva- ossia alla messa in atto dei concetti acquisiti nel corso della realizzazione di tale processo di apprendimento.

 

Molteplici sono quindi gli scopi dell’azione del supervisore nell’ambito dell’azione del counselor; il supervisore non solo deve supportare il counselor ascoltandolo e accompagnandolo nel suo percorso autoesplorativo in modo che possa affrontare le difficoltà poste dai clienti, ma deve anche impedire che il counselor cada nel tringolo di Karpman, ai cui vertici vi sono le figure del persecutore, cioè il supervisore, il quale accusa e richiama l’attenzione del counselor sugli elementi da tenere in considerazione; del salvatore, ovvero dell’allievo in formazione, che tenta di mantenere con il cliente il tipico rapporto di empatia; della vittima, ossia del cliente che consapevolmente si affida a chi potrà renderlo libero di essere ciò che sente di essere realmente.

Il processo di supervisione prevede 4 fasi fondamentali che ne sottolineano la necessità non solo etica ma anche professionale: l’azione del supervisore è volta alla tutela del benessere del cliente  nonché dello stesso counselor.

Tali fasi possono essere così identificate:

  1. fase della formazione: il supervisore è il formatore che fa conosce al counselor le varie tecniche di comportamento e azione
  2. fase dell’apprendistato: il counselor inizia a sviluppare le proprie abilità dopo aver correttamente appreso le tecniche ed aver cominciato a metterle in pratica sul campo
  3. fase della definizione: il counselor ha ormai una buona competenza professionale e per lui il supervisore è ora un collega con maggiore esperienza piuttosto che un formatore
  4. fase finale: il counselor e il supervisore ormai collaborano come pari.

 

Il percorso di supervisione può inoltre essere compreso in ulteriori fasi che segnano un percorso rappresentato dal percorso obiettivo- cambiamento: partendo di fatto da un problema/ obiettivo- il counselor si rivolge al supervisore non solo per problematiche legate a difficoltà riscontrate nelle sedute, bensì anche per il semplice desiderio di crescere professionalmente, si passa al modello – cioè il supervisore adatta il modello di supervisione al cliente e all’obiettivo che insieme hanno deciso di raggiungere. Il supervisore deve poi tenere conto delle resisteze/ blocchi del counselor, cioè deve domandarsi la ragione per la quale egli ha avuto bisogno del  supporto per raggiungere un determinato obiettivo. Vi è poi la verifica dell’azione del processo di supervisione sul counselor e la sospensione degli incontri: non si parla di conclusione poiché in realtà il procedimento di supervisione non ha mai fine.

Una delle condizioni di stress maggiormente pericolose per il counselor inesperto è quella di stress eccessivo che conduce al burnout, ossia alla concentrazione eccessiva del counselor sui problemi del cliente e dunque uno stato di malessere personale. In questo caso quindi il professionista è uscito dal limite imposto dal rapporto empatico che è trasceso quindi nel burnout, cioè in una eccessiva immedesimazione dello stesso nella problematica del cliente.

Vi sono tre livelli di partecipazione del couselor nei confronti del cliente, il primo risulta insufficiente affinchè si crei quel rapporto di fiducia utile allo svolgimento corretto delle sedute; il secondo è il rapporto empatico che delimita quindi la zona di efficacia dell’intervento del counseling; il terzo delimita invece una zona di danneggiamento, nella quale è il counselor a far del male a se stesso avendo troppo partecipato alla sfera emozionale del cliente.

Il supervisore deve intervenire a questo punto con efficacia rendendo consapevole il counselor del suo lavoro, dei suoi limiti ma anche dei suoi punti di forza e proprio su questi deve far leva affinchè il counselor stesso possa prendere coscienza dell’accaduto e riprendere il possesso delle proprie potenzialità.

In questa fase il counselor si sente inadeguato al ruolo ricoperto, entra dunque in una fase di leggera depressione. A questo punto egli reagire o manifestando ostilità legata al senso di colpa per la consapevolezza di non essere riuscito a compiere il proprio lavoro in modo adeguato, oppure addirittura nell’abbandono della pratica della professione.

La supervisione in questi casi aiuta fornendo indicazioni e metodi, lavorando e rafforzando la consapevolezza professionale del counselor in questione. I mezzi messi in atto dal supervisore sono:

  • aumentare la consapevolezza delle capacità professionali del counselor
  • prendere atto delle sue qualità individuali
  • rendere il counselor consapevole del rispetto per l’altro.

 

Vi sono tre categorie di professionisti che richiedono la presenza di un supervisore e sono:

  1. i counselor ancora inersperti
  2. i counselor che voglio diventare supervisori
  3. i counselor che ritengono la supervisione necessaria per continuare a migliorare dal punto di vista professionale.

Il supervisore analizzerà quindi il counselor attraverso l’utilizzo di tabelle che indicheranno il livello di stress, di preparazione e professionalità del supervisionato.

Ma anche la figura del supervisore ha importanti compiti ai quali assolvere e per farlo deve necessariamente  sviluppare degli standard che ne caratterizzano la figura professionale. Egli deve quindi:

  • rispettare la triade rogesiana ed essere empatico, autentico e accettante
  • essere serio
  • essere coinvolto nella professione
  • essere rispettoso delle debolezze dei counselor suoi colleghi
  • agire per la crescita del supervisionato
  • agire per il benessere dei clienti.

Gli obietttivi di un supervisore possono poi essere divisi in obiettivi pratici, cioè legati al favorire che il couselor supervisionato abbia migliore visione del processo di counseling, che sviluppi ottime capacità professionali, che superi i momenti critici a rischio burnout, che agisca quanto più autonomamente, che impari ogni tecnica modello e protocollo di intervento; ed in obiettivi procedurali: il supervisore deve verificare il rispetto delle norme del codice deontologico, aiutare il supervisionato a raccogliere i dati che consentano di aiutare al meglio il cliente, insoraggiare il counselor affinchè questi mantenga un distacco empatico libero dai condizionamenti, favorire la competenza del counselor ed accompagnarlo nell’esplorazione dei particolari emersi nel corso delle sedute, insegnargli ad accettare e prendere coscienza degli eventuali errori commessi ed aiutarlo nella gestione dello stress professionale, fungere da esempio e modello professionale e umano  per il supervisionato.

Il campo d’azione del supervisore quindi si sposta da quello cognitivo a quello relazionale ed infine affettivo.

È però evidente quanto anche il supervisore possa commettere degli errori semplicemente per il fatto di essere anch’egli un essere umano.

Nel setting del supervisore possono quindi essere commessi differenti tipi di errore:

  1. effetto alone: il supervisore tende ad alterare la pecezione del supervisionato basandosi sul suo aspetto esteriore- si considera poco intelligente chi è di bell’aspetto-
  2. effetto Horns: al contrario il supervisore effettua considerazioni negative sull’altro prendendo spunto da osservazioni negative sul suo aspetto
  3. effetto central tendency: il supervisore valuta la persona del counselor ritenendola nella media, senza attribuirgli particolari pregi o difetti, in modo da non sopra o sottovalutare alcuno
  4. effetto compatibilità: il supervisore classifica le persone piacevoli e con le sue stesse caratteristiche o idee di competenza maggiore rispetto a quella realmente posseduta
  5. effetto simile a me/ diverso da me: quanto più il supervisore considera simile a se il supervisionato, tanto più lo riterrà preparato e viceversa
  6. effetto one asset person: il supervisore considera più preparato l’individuo che si presenta con buona cultura generale, di bell’aspetto e abile nel parlare
  7. effetto HP: il supervisore tende a giudicare le credenziali di una persona e non ciò che è realmente in grado di fare
  8. effetto controdipendente: il supervisore si trova dinanzi ad un supervisionato sempre in disaccordo con lui
  9. effetto auto confronto: il supervisore si accorge di aver commesso un errore nel sopravvalutare un counselor rivelatosi ad una più attenta analisi appena mediocre
  10. effetto efficacia recente: il supervisionato va dal supervisore anche non avendo compiuto un lavoro perfetto e tiene con lui una seduta soddisfacente solo per il fatto che in passato la riuscita del suo lavoro è stata migliore
  11. effetto perfezionista: il supervisore pretende il massimo dal supervisionato o perché identifica in lui caratteristiche simili alle sue o per un pregiudizio nei suoi confronti.

La fase finale ma anche la più importante è poi la relazione, ossia il rapporto che si instaura tra supervisore e supervisionato: è evidente che come nel rapporto cliente-counselor, così anche in questo caso la riuscita delle sedute risulterà migliore quanto più forte sarà la relazione creatasi dai i suoi due partecipanti.

La relazione prevede tre fasi che la caratterizzano:

  • la fase iniziale durante la quale il supervisore mostra la strada da dover percorrere e gli obiettivi da dover raggiungere
  • la fase matura nel corso della quale counselor e supervisone hanno instaurato un rapporto di fiducia e si scambiano richieste dal punto di vista dei metodi e delle tecniche da applicare
  • fase finale durante la quale il counselor ormai è in grado di agire autonomamente e dunque il supervisore controlla il suo operato.

Molteplici sono poi i modelli utilizzati dal supervisore, sebbene tutti si basino su due criteri fondamentali: sull’approccio personale tra i due individui del processo di supervisione, sull’aspetto tecnico per il quale il supervisore deve prestare maggiore attenzione  all’applicazione da parte del suo assistito della pratiche  e delle tecniche apprese nel corso della scuola di counseling.

In base alla maggior o minore esperienza sul campo, ma anche all’autonomia rispetto all’azione del supervisore e alla consapevolezza di sé e dell’altro nonché alla padronanza tecnica, si distinguono tre tipi di counselor, quello principiante ( ancora dipendente dal supervisore, fortemente motivato ma ancora spaventato, concentrato ancora su di sé), quello intermedio (in bilico tra indipendenza e autonomia, ancora instabile nell’affrontare le situazioni più complesse) e infine quello esperto.

Spesso viene messa in atto il modello di supervisione AT, ossia quello basato sull’analisi trasazionale ideato da Erc Berne. Tale teoria afferma che quando due persone sono in relazione tra loro, mettono in atto transazioni che posso agevolare o meno la comunicazione assumendo comportamenti tipici degli archetipi ricevuti sin da bambino.  Le figure dell’AT sono dunque il Genitore, l’Adulto e il Bambino, definiti stati dell’io.

Nel Bambino c’è la creatività e il prevalere delle emozioni, nell’Adulto vi è il prevalere della pragmaticità e della norma, nel Genitore vi è la garanzia del rispetto delle norme ed il controllo.

Il supervisore in questo caso dovrà esaminare  le contaminazioni tra adulto e bambino o tra adulto e genitore evidenziando di volta in volta il fatto che le interazioni siano sane ( per esempio genitore-bambino) e non errate ( bambino- bambino).

I punti di controllo per questa tipologia di supervisione sono dati dalla definizione del contratto in modo chiaro  negli obiettivi, concreto e realizzabile; dalla costruzione dal rapporto e nella relazione paritaria tra supervisionato e supervisore, dalla decontaminazione dell’adulto presente nel supervisionato che dovrà far riemergere gli insegnamenti proiettati dal suo genitore quando era bambino, dalla deconfuzione, ossia dal recupero delle problematiche presenti nel bambino- counselor e dal loro superamento, dall’attenzione alle emozioni che in questa fase emergono spontanee nel counselor, dall’attenzione ai campioni, ossia ai copioni e ai giochi portati dal counselor alla seduta, dalla salvaguardia dei clienti, dovere supremo per il supervisore e scopo del suo agire con il counselor.

Importante è anche la terapia della Gestalt, creata da  Perls, la quale prevede che il cliente lasci emergere il proprio risentimento e le proprie emozioni negative nei confronti di qualcuno, rivolgendosi però ad una sedia  vuota, fingendo che questo qualcuno sia presente qui e ora.

La figura sfondo, ossia la presenza sulla sedia vuota, è un elemento fondamentale per tale tipo di supervisione: essa è la necessità di un bisogno da soddisfare; lo sfondo rappresenta invece qualunque cosa sia in secondo piano rispetto alla figura.

Il supervisore applica quindi le regole di base della teoria gestaltica al supervisionato per insegnargli a valutare solo il qui e ora, a non interpretare, giudicare o dare consigli; egli inoltre  analizza il comportamento del supervisionato solo nello sfondo del setting ed entra in relazione immediata e attiva con l’altro in modo da mostrare a questi come dovrà agire con il cliente.

Vi è poi l’insegnamento del padre moderno del counseling, Rogers, da cui nasce il metodo della supervisione appunto rogesiana.

Posto che l’individuo debba rimanere libero di pensare e agire nel corso delle sedute e non debba subire condizionamenti nell’ambito delle scelte che farà in futuro per la risoluzione del problema che ha dato avvio alle sedute stesse, Rogers sottolinea come il counselor debba sospendere il giudizio, ovvero far sì che il cliente si senta libero di esprimersi senza il peso di un giudizio perentorio, indagando senza però creare resistenze o tensioni nel corso della seduta.

È la person- centered supervision quella che si basa sulle teorie rogresiane e prevede che il supervisore non si comporti come l’esperto bensì come il collaboratore del counselor, ponendosi con esso al medesimo livello, in modo da favorire un setting adeguato che consenta al supervisionato di sentirsi a proprio agio nel qui e nell’ora : il supervisore accompagnerà il counselor nella scoperta della relazione con i suoi clienti dopo aver creato egli stesso un rapporto empatico con lui, facendo in modo che sia il supervisionato a parlare e lui ad ascoltare, che il counselor possa decidere la strada da percorrere, che le sue domande  ponga domande che possano  incrinare il rapporto e la relazione tra supervisore e supervisionato.

Il supervisore può inoltre decidere di avere un approccio cognitivo- comportamentale ( CC)  nell’ambito dello svolgimento del suo compito: in questo caso  egli tiene in gran conto i condizionamenti che l’ambiente ha nei confronti del cliente- counselor e le interazioni con esso.

Il percorso tipico di questo approccio porta quindi  da una situazione disfuzionale ad un nuovo stato emotivo, passando per l’analisi e l’elaborazione di un nuovo conteste la consapevolezza, da parte del cliente, del nuovo stato che condurrà a sua volta ad una modifica nel suo comportamento. La supervisione CC fa quindi ampio uso dei dati e dei comportamenti  osservabili nel setting supervisivo e, tramite questi, lavora affinchè il supervisionato diventi consapevole degli schemi di comportamento e di pensiero nati negli incontri di counseling. In questo caso dunque il supervisore ha un atteggiamento direttivo, indica cioè ciò che il counselor deve o non deve fare, assegna compiti e ne valuta la realizzazione.

Altrettanto importante è poi l’approccio Sistemico-Relazionale, un modello nato negli anni 50 e sviluppato poi da Bateson, il quale pone l’accento sull’aspetto comunicazionale: secondo questo modello infatti il soggetto non è visto come causa del problema poiché questo è visto nascere in un determinato ambiente che ne ha causato lo sviluppo.

Il modello di discriminazione di Bernard invece è centrato sul modo in cui attivare il supervisore a pensare ai bisogni del suo supervisionato: il supervisore può assumere quindi la funzione di:

  • insegnante, quando forma ed istruisce il supervisionato
  • counselor, quando assiste il supervisionato e ne fa emergere le problematiche
  • counsulent, quando offre un parere e un supporto ai colleghi relazionandosi con loro da pari.

Tre sono le fasi caratteristiche del modello di discriminazione:

  1. il processo, in cui il supervisore esamina gli aspetti tecnici della gestione operativa del supervisionato
  2. la concettualizzazione, in cui il supervisore valuta le abilità del supervisionato ed usa le caratteristiche del counselor-cliente per migliorarne le prestazioni
  3. la personalizzazione, in cui il supervisore valuta la personalità del supervisionato oltrechè le tecniche da lui applicate.

Vi è infine l’integrated development model, nato per la supervisione terapeutica. Esso indica tre livelli nello sviluppo del counselor:

  • livello I, il counselor è in formazione, con poca esperienza e molta motivazione
  • livello II, il counselor è ad un livello medio di esperienza
  • livello III, il counselor è ora consapevole della propria professionalità e la applica con serietà e prontezza di intervento.

 

Le sedute di supervisione possono essere collettive o singole. Nel primo caso la seduta può essere tenuta tra counselor di pari livello che interverranno autonomamente nel dibattito e metteranno la loro esperienza al servizio dei professionisti suoi pari, oppure con la supervisione appunto di un counselor senior il quale guiderà l’incontro. Nel caso di sedute one to one invece il counselor saprà di avere a disposizione esclusivamente per se il supervisore. In entrambi i casi vi sono vantaggi e svantaggi: nelle sedute collettive infatti i partecipanti non potranno che giovare dell’esperienza dei simili; nelle sedute one to one invece il supervisionato sarà a contatto diretto con il supervisore e potrà quindi sentirsi più libero di esprimere pensieri, dubbi e problematiche legate alla pratica del counseling appunto. Esiste poi la supervisione alla pari, la quale si ha quando periodicamente si incontrano due o più counselor per discutere e per confrontarsi sui loro casi: il counselor con poca esperienza potrà, da questo confronto, imparare a gestire al meglio le tecniche da utilizzare poi con i clienti.

Per autosupervisione si intende invece l’utilizzo di metodi specifici di auto-valutazione che consentano di sviluppare l’autocritica, di simulare al presenza di un supervisore e quindi rileggere criticamente gli appunti presi nel corso delle sedute di counseling. Il counselor in questione deve parlare ad alta voce imparando a migliorare la relazione con se stesso e la propria autocoscienza.

In molti paesi, sebbene in Italia questa forma di supervisione non sia molto utilizzata, esiste la web-supervision, ossia il counseling con il supervisore si opera tramite internet: potrebbe essere utile poiché la distanza creata dal monitor e dallo schermo potrebbero agevolare una più veloce apertura del supervisionato nei confronti del suo supervisore, eliminando i freni inbitori normali in una seduta faccia a faccia.

Esiste infatti in Europa l’ACTO, un’associazione che fornisce servizio di counseling on line ed anche servizio di supervisione tramite il web.

Quanto alla frequenza degli incontri di supervisione non vi è una regola rigida e unitaria, si consigli un’ora ogni dieci incontri di counseling con i clienti, sebbene si possa sempre richiedere, in caso di difficoltà, sedute aggiuntive.

 

In conclusione, queste sono le caratteristiche che deve possedere un counselor che vuole essere anche supervisore, stabilite come standard dal 1989 e identificate in 11 aree suddivise in conoscenze, competenze e tratti personali:

  1. il supervisore è un counselor preparato e competente
  2. dimostra caratteristiche personali compatibili con il ruolo ricoperto
  3. è abile nell’applicare le tecniche e le competenze apprese negli anni di studio, nella pratica del counseling
  4. ha competenze sulla natura del rapporto counselor-supervisore
  5. conosce le tecniche per promuovere le capacità del supervisionato
  6. conosce il processo di sviluppo del counselor e sa come aiutarlo
  7. sa come gestire ogni caso propostogli
  8. sa valutare i clienti
  9. è in grado di compilare i report
  10. sa valutare le performance del counselor
  11. si informa continuamente e continua a studiare per conoscere sempre al meglio le nuove tecniche di counseling.

Nel considerare l’importanza di queso lavoro non si deve mancare di definire la figura del  counselor supervisore pari a quella dell’ ostetrica, di socratica memoria nell’atto- maieutica- di far “partorire” appunto la verità all’individuo,  che utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione per aiutare il supervisionato a tirar fuori ciò che ha dentro e che ha difficoltà a uscire. Opera nella supervisione a livello didattico e formativo e offre supporto al counselor. Ègli è  il professionista che ha come unico obiettivo quello di stimolare il cambiamento seguendo i precetti rogersiani. 
Nel libro vengono appunto attentamente presi in considerazione ed esaminati gli approcci e i modelli di supervisione di diverso orientamento teorico più diffusi nelle scuole di formazione; si passa in rassegna lo stato della supervisione negli Stati Uniti e in Europa al fine di definire le caratteristiche e le competenze standard che devono essere possedute da un counselor per poter essere anche un supervisore.
In particolare, grande importanza viene data alla relazione che si instaura nel setting di supervisione: si analizzano gli errori in cui può incorrere il professionista, che possono essere causati da bias cognitivi (come l'effetto alone o il central tendency), e vengono definite le regole di buona pratica. Proprio per questo il  libro può essere usato come un manuale per counselor - da consultare all'occorrenza o da studiare a compendio di una formazione adeguata - ma anche come uno strumento di auto-esplorazione per coloro che operano nel mondo della relazione d'aiuto.